Esperienza Bruxelles 2024

Chiamati per nome

La mia esperienza di volontariato è iniziata un po' per caso, con una proposta arrivata qualche settimana prima della partenza. Sapevo già che Marco e Maddalena sarebbero andati in Romania, facendo prima tappa a Bruxelles, nel convento dei frati Carmelitani, per circa un mese. Quello che non sapevo è che sarei partito con loro per un'esperienza di circa due settimane. Senza sapere esattamente cosa mi aspettasse, ho deciso di accettare e partire per questa piccola avventura non programmata. Avendo avuto poco tempo per prepararmi, cresceva in me la preoccupazione di non essere all'altezza dei compiti che ci sarebbero stati assegnati, ignaro di cosa ci saremmo trovati davanti una volta arrivati.

Il viaggio d'andata è stato molto lungo e stancante, circa dodici ore in macchina, ma mi ha permesso di conoscere meglio Padre Stefano, la nostra figura di riferimento. Arrivati a Bruxelles in tarda serata, siamo andati subito a dormire per affrontare al meglio la giornata successiva.

Così è iniziata la nostra esperienza di volontariato, tra mille lavori di riparazione e pulizia nel convento. Il convento è enorme, e i frati hanno deciso di dedicare un piano all'accoglienza dei senzatetto, ospitandone attualmente quattro. Al nostro arrivo, Elvis e sua figlia se n'erano appena andati, liberando così una stanza. Uno dei compiti principali affidatici da Padre Stefano era di pulire quella stanza e, a seguire, tutte le altre.

Durante questi lavori ho potuto osservare da vicino la vita quotidiana dei senzatetto ospitati nel convento. Mi ha colpito vedere come molte delle difficoltà che affrontano vadano oltre la semplice mancanza di un tetto sopra la testa. La perdita della dignità era evidente anche nel modo in cui affrontavano le attività quotidiane, compresa l'igiene personale e la cura degli spazi. Questo non solo aveva un impatto sulla loro salute fisica, ma anche sulla loro autostima e sulla percezione di sé stessi.

E proprio qui ho capito quanto sia importante qualcosa che spesso diamo per scontato: il nome. Cosa vuol dire avere un nome? Forse è solo una parola che usiamo per presentarci, o magari non significa nulla, una cosa che possediamo come un telefono, qualcosa che hanno tutti e che nemmeno ci piace. Eppure, durante quei giorni, ho capito che un nome può significare molto più di quanto pensiamo. Può essere il primo passo per riconoscere l'altro, per restituirgli dignità, per farlo sentire visto e ascoltato. Una sera Padre Stefano ci ha portati con lui nel quartiere, dove ogni settimana distribuisce minestrone ai senzatetto. Alcuni li conosceva già e si fermava a parlare con loro, scambiando battute e aggiornandosi sulle loro vite; altri, invece, prendevano il cibo e se ne andavano senza dire molto. Ma a tutti chiedeva il nome, cercando sempre di instaurare un dialogo. Era il suo modo per restituire un senso di umanità e di riconoscimento a persone che spesso vengono ignorate.

Un episodio in particolare di quella sera mi è rimasto impresso. Mentre distribuivamo il cibo, abbiamo incontrato un uomo nella stazione della metropolitana, intento a drogarsi. I passanti lo ignoravano o lo evitavano, come se non esistesse. Ma Padre Stefano si è avvicinato senza esitazione, gli ha offerto del cibo e ha cercato di parlargli. Quel gesto, apparentemente semplice, mi ha fatto capire quanto sia fondamentale essere riconosciuti come persone e non solo come "senza tetto" o "emarginati". Ancora oggi mi colpisce questo episodio e il modo in cui sia stato fatto il possibile per far sentire quell'uomo visto e riconosciuto.

Se c'è una cosa che ho imparato in questa esperienza, è proprio questo: il valore che dai a una persona passa anche da ciò che la rende unica. Chiamare qualcuno per nome non è un dettaglio, ma un riconoscimento, un modo per ricordargli che esiste, che merita attenzione e rispetto. Questa consapevolezza mi ha accompagnato per tutto il viaggio e continua ancora oggi a farmi riflettere.




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